24ª Domenica
in Tempo Ordinario
17 settembre
2017, in Prada
Sir 27:30-28:7
Rom 14:7-9
Mt 18:21-35
Sia lodato Gesù Cristo!
“Ricòrdati
dei comandamenti e non aver rancore verso il prossimo, ricòrdati dell'alleanza
con l'Altissimo e non far conto dell'offesa subìta.”
Il Libro del Siracide illustra bene la definizione che
si trova nel dizionario Treccani del peccato denominato: rancore (Sentimento di
odio, sdegno, risentimento profondo, non manifestato apertamente, ma tenuto
nascosto e quasi covato nell’animo). In questo senso, le letture di questa 24ª
Domenica in Tempo Ordinario hanno implicazioni per quasi tutti noi quando si parla
del rancore. Direi, anzi, esagerando da poco che non c’è peccato più comune nel
cuore dei cristiani di quello del rancore. Questo si vede chiaramente nell’atteggiamento
ingrato e vendicativo del servo malvagio nel Vangelo di oggi che, nonostante il
generoso perdono del suo debito da parte del suo padrone, non riusciva a
liberarsi dall’oddio verso il suo compagno. Questo malvagio, per non aver perdonato
al compagno un debito da poco, ha provocato il padrone di tornare indietro
sulla sua decisione e di punire duramente lui, il rancoroso.
“Ricòrdati
della tua fine e smetti di odiare, ricòrdati della corruzione e della morte e
resta fedele ai comandamenti.”
Colpevoli di aver nutrito odio nel cuore verso il
prossimo, molti tra di noi ci comportiamo ciononostante come impuniti. Spesso
induriti di cuore, non ci accorgiamo del fatto e non sappiamo nemmeno come
confessare questo peccato. È la vecchia storia dell’uomo che si presenta a
confessarsi una volta all’anno dicendo che praticamente non ha nulla da
confessare. Non è così tanto che si vanta di essere più bravo degli altri, ma
nemmeno peggio di loro. Egli insiste che va sempre in chiesa e non ha mai
rubato o ammazzato nessuno. Come confessori siamo naturalmente senza parole e stiamo
lì con bocca aperta davanti ad una tale ignoranza del non pentito di se stesso
e dei propri difetti e veri peccati. È un esempio chiaro nell’altro della durezza
di cuore.
Forse il tragico di questo si rivela non proprio a
livello dell’individuo ma come impostazione comune di una società o di certi
ambienti dentro la Chiesa dove risulta che è subentrata a livello della
collettività quasi la stessa mentalità del nostro uomo che si presenta in
confessione con niente da confessare. Voglio dire che esiste in società un
clima o un atteggiamento che nega conseguenze nell’al di là per l’individuo a
motivo delle sue parole, atti e omissioni. V’è gente, anche qualche teologo
(sacerdote o vescovo) che nega non tanto l’esistenza dell’Inferno ma l’idea che
vi siano quelli che finiscono lì per tutta l’eternità. Per chi sia di questa
mentalità, anche se fosse cosciente dei propri peccati, le conseguenze o il
peso dei suoi delitti non può essere di una tale gravità ad occasionare una
rottura definitiva e completa con il buon Dio. Non pensano di poter provocare
Dio a quel punto di rischiare un posto riservato pur basso nel Regno dei Cieli.
Alcuni negano l’inferno come condanna anche ai peggiori tra gli uomini della
storia che hanno mai esistito sulla terra. Si illudano così.
Lascio in disparte il caso di altri delitti, come quelli
di chi ammazza per l’aborto o per l’eutanasia. Voglio concentrarmi solo un
momento sul caso del rancore. Mi riferisco a questo oddio o risentimento
profondo, non manifestato apertamente, ma tenuto nascosto e quasi covato
nell’animo. Si vede dalla prima lettura che già dai tempi dell’Antico
Testamento il rancore come tale fu condannato. In Cristo Gesù la cosa diventa
ancora più esigente in termini del perdono che dobbiamo al prossimo. È per
l’amor di Dio che dobbiamo altrettanto in rispetto al nostro vicino. La
consapevolezza della bontà di Dio nei nostri confronti ci spinge a perdonare
gli altri sempre e senza tergiversare. Vi sono quelli che contrappongono la
giustizia alla misericordia o alla carità di Cristo. Non è così e la parabola
del servo rancoroso dimostra perché. L’interessa del disgraziato condonato così
tanto non poteva essere la smania di poter ricuperare quella sciocchezza dovuta
a lui dal collega. Non, egli nutriva un odio verso quell’altro per qualche
motivo e voleva colpirlo. Giustizia non entra nemmeno nel calcolo. Non
conosciamo l’offesa del collega verso di lui, vediamo solo quel rancore che
rappresenta il vero oltraggio davanti a Dio.
Dobbiamo esaminare i nostri motivi e le nostre attese.
Chi possiede Dio nell’amore di Cristo non si lascia provocare facilmente e non
pensa di ristabilire nel proprio favore una giustizia immaginata “occhio per
occhio” o “dente per dente”. Chi si rende consapevole del riscatto pagato per
la mia vita per Gesù in Croce non può avere quel sentimento di odio, sdegno,
risentimento profondo, non manifestato apertamente, ma tenuto nascosto e quasi
covato nell’animo, che si chiama rancore.
“‘Signore,
quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a
sette volte?’ E Gesù gli rispose: ‘Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta
volte sette.’”
Sia lodato Gesù Cristo!
PROPERANTES ADVENTUM DIEI DEI
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